Sulla situazione politica in Italia

Una lettera. Anni fa, in un suo lucido scritto, Alberto Spaini suggerì che il Principe di Machiavelli andava letto in chiave di satira. Il destino delle satire, e Swift ne sa qualcosa, può essere la loro trasformazione in lettura per l’infanzia.
Il motivo che ha impedito al Principe  di mutarsi in una strenna per ragazzi è tutto nella qualità tragica dell’umorismo machiavelliano, che non sopporta illustrazioni e non apre strade alla favola; e che dunque viene scambiato per cinismo, diabolica concezione della politica. Ma il proponente aveva le sue ragioni; egli indicava nel Principe non un manuale how-to-do-it sulla eventuale conquista e conservazione del potere, ma un racconto (sotto forma di trattato) di ciò che, semplicemente, nel suo tempo, principi e duchi, marchesi e papi , senati di repubbliche e re, governatori e capi di parte, facevano realmente per annientare i loro nemici e mantenere appunto il potere. Il cinismo non è in Machiavelli, ma nell’italiano di allora; il quale, appena al comando di uno stato o di una città o di un semplice ufficio, ordinava trame e alleanze per mantenervisi. E tentava subito di annientare il proprio diretto concorrente, favorito in ciò dalla mancanza di un potere centrale: donde gli odi incolmabili tra città e città, che tuttora sussistono.

È quindi senza sorpresa che un giorno della scorsa estate ebbi una lettera, senza firma né data o luogo di provenienza: della quale do il contenuto a memoria, avendola purtroppo perduta riordinando i cassetti.
Dopo un esordio pro-machiavelliano, la lettera continuava dicendo che tutte le storie d’Italia che si scrivono oggi partono dalla premessa che la Storia non sia la storia della libertà, come vuole il filosofo di Pescasseroli, ma che il suo scopo particolare e più caramente diletto sia invece stato l’Unità del nostro Paese. Ora sarebbe interessante – continuava l’anonimo – scrivere del periodo che va dalla proclamazione di questa unità ai giorni nostri; e studiarlo come un’occupazione dell’Italia non più da parte dei Goti, dei Galli, dei Longobardi, dei Normanni, degli Svevi, dei Francesi, degli Spagnoli e degli Austriaci, eccetera; ma soltanto da parte degli italiani. Considerare dunque gli Italiani come un popolo che ha occupato la Penisola e la sta semplicemente dominando.

Su questi italiani (che gli indigeni, ormai finiti nelle loro riserve, considerano accettabili e persino simpatici se presi uno per uno, ma detestabili se considerati anche in modeste quantità politiche), i giudizi sono severi: l’unione li ha resi arroganti e avidi, portati al disprezzo dei loro monumenti, tendenti alla burocrazia più sfrenata e alla confusa interpretazione delle leggi, attaccati al loro più abbietto “particulare”, vivaci nell’odio del prossimo e per di più eternamente irresponsabili. Sicché l’eventuale Principe non dovrebbe rompersi la testa per governarli, ma soltanto trasformare le loro tendenze in una energia che li tenga divisi nell’unione, paradosso che non sarebbe accettabile se già non sapessimo che gli italiani amano soltanto i paradossi e fondano, per dirne una, tutta la loro politica interna sulle divergenze parallele, lasciando che la politica estera sia basata sulle parallele convergenti.

Una volta il colpo è riuscito: il Principe (o duce), che riassumeva ed esemplava tutti i loro difetti, ed emergeva nella improvvisazione e nella stupidità, due doti nazionali, gli Italiani si riconobbero e si applaudirono. Non se ne sarebbero mai liberati senza una guerra che percorse come un rastrello l’Italia da capo a piedi.
Poi le cose cambiarono e ora c’è un intoppo: la dominazione italiana continua, ma confusa. Le tribù originarie si sono inestricabilmente mischiate. Ab ovo, queste tribù, o sette, o clan, si distinguevano per un preciso carattere negativo ed erano di grande utilità al Principe per le sue mene. Diciamo, per esempio, che una tribù era interamente composta di ladri, una di costruttori, una terza di distruttori, una quarta di legulei, e via dicendo: protestatari, spie, preti, ricchi sfondati, strozzini, mafiosi, camorristi, storici e filosofi del regime: e non dimentichiamo i ditirambici.
Ora queste tribù, sette, clan, si dominano da loro stesse, in una continua contraddizione che annulla ogni possibile autorità e anche la più modesta armonia.

Da questa insulsa dominazione sono venuti agli indigeni tutti i mali che li affliggono: la devastazione costruttiva del paese, la corsa sfrenata verso quelli che essi ritengono i piaceri della vita: sterminio della natura, furti di beni dello Stato, costruzione intensiva di orribili abitazioni che essi chiamano ville, frantumazione di idee, libertà intesa come prigionia del proprio vicino, amore forsennato per lo sport fatto dagli altri, frodi alimentari, disboscamento, suoni e luci, rumori molesti, distruzione di parchi per far posto alle automobili; che sono i soli feticci tenuti da conto. La dominazione italiana in Italia ha naturalmente portato anche dei benefici: l’abolizione dei confini fra stati e staterelli, la costruzione di una imponente rete stradale, l’aumento del reddito, l’aumento del contrabbando, la distruzione della scuola e la persecuzione dei cristiani. La lettera conclude con dei saluti cordiali.

Ennio Flaiano, Roma 1970.